DECORAZIONE
Aggiornamento: 28 mag 2022
Nel il primo numero della nostra rivista cartacea un tema occuperà la parte centrale. Per non farci ingabbiare e restare poliedrici ne abbiamo cercato uno che fosse il più universale possibile: L'arte? ... no, il decoro.

Per approfondire l'argomento, ci siamo quindi rivolti ad un esperto in materia: Gaetano Mainenti, titolare da quasi 30 anni della cattedra di Decorazione all' Accademia di belle Arti di Venezia.
Lo abbiamo interrogato su cosa sia la decorazione e sul ruolo di questa all' interno delle quattro sezioni fondamentali presenti da sempre all'interno delle accademie di belle arti italiane.
Ne è uscita una lunga intervista che scegliamo di pubblicare integralmente nel nostro sito per dedicargli il meritato spazio e avvalerci delle possibilità di collegamenti che il web ci offre per meglio esplorare l'argomento.
buona lettura!

1 che cos’è la Decorazione e perché l’Accademia ha una sezione apposita?
L’uomo ha una naturale pulsione verso l’ordine e decorare significa dare forma a questa pulsione. Quando indaghiamo un oggetto, anche se solo percettivamente, cerchiamo di individuarne lo schema, la regola, e pensiamo erroneamente che quello che cerchiamo sia esclusivamente interno all’oggetto che indaghiamo. Quello che in realtà avviene è che la mente “illumina” l’oggetto della nostra indagine cercando di riconoscere l’articolazione del fenomeno in termini per noi comprensibili, quindi in schemi ordinati.

Lo schema (pattern), per l’umano, è quindi una sorta di interfaccia che collega il dato percepito con l’oggetto, uno strumento indispensabile alla nostra relazione con le cose in quanto è attraverso questo processo che il mondo ci appare in una cornice di senso, che si mostra in relazione a noi.
Tutto ciò che riguarda la pratica del decorare, quindi, è fortemente connotato da questa pulsione a comprendere l’ordine come forma della relazione tra noi e il mondo ed è attraverso questa prima relazione che si articola poi il nostro costruire.

Il sostantivo femminile che ho utilizzato, infatti, diviene verbo nell’azione, azione che prevede sempre un oggetto che si qualifica nell’atto: si decora sempre qualcosa. Non è un caso che i termini propri a questa pratica, come composizione o armonia, mantengono nell’etimo il senso dell’unire, del mettere insieme. La Decorazione, quindi, è trattare il problema della relazione uomo-mondo attraverso schemi che ci permettano di distinguere il codice nel caos, frequentando così l’utopia del suo controllo momentaneo: se ci pensi è questa la base fondamentale dell'abitare il mondo da parte dell'uomo, abitare che avviene attraverso la creazione. Non siamo altro da quello che chiamiamo “natura”, è un equivoco immaginarci come isolati dal tutto arrogandoci un ruolo di supervisione o, peggio, di gestione. Decorare ci permette di agire questa nostra appartenenza.
Probabilmente noterai una sfumatura troppo estesa tra quel che ho espresso nel tentativo di tracciare le peculiarità della Decorazione e l’atto artistico in sé, ed è un problema noto. Molti, infatti, sono stati gli storici che hanno intrecciato la Decorazione con l’origine stessa dell’arte, concludendo, come Schlosser, che all’impossibilità della formulazione di una chiara ipotesi storica si debba rispondere affrontando la questione attraverso gli strumenti della psicologia umana. Le dinamiche relazionali, com’è noto, sovrintendono al nostro abitare, e abitare è costruire come ricorda Heidegger, quindi nel corso dei secoli l’uomo ha dato forma, in un continuo processo articolato di prove ed errori, alle ordinate sequenze interiori dettate, di volta in volta, dall’incontro delle proprie pulsioni con l’oggetto o l’ambiente.

Si potrebbe proseguire fuori dai perimetri stessi dell’arte, in quanto la nozione di schema, se intesa nell’ambito delle teorie della conoscenza, non è strettamente legata alla questione rappresentativa, ma assume una valenza essenziale in qualsiasi processo creativo.
Definire cos’è questa pratica umana, insomma, non ti lascia mai con la “coscienza del tutto tranquilla”, come scrive Gombrich nel suo “Senso dell’ordine – Studio sulla psicologia dell’arte decorativa”, ma come lui mi sento di affermare che “fortunatamente è un errore pensare che quanto non si può definire non si possa neppure trattare”.
Considerando quanto detto, per rispondere alla seconda parte della tua domanda, vorrei porre l’attenzione su come l’insegnamento della Decorazione si sia da sempre articolato, per sua stessa natura, in un ambito che definiamo multidisciplinare: la pittura murale, il mosaico, la ceramica, il vetro sono solo alcuni dei materiali e delle tecniche che accompagnano da sempre la scuola di Decorazione all’interno delle Accademie, ma ancora una volta, se noti, sono tutte pratiche creative che richiedono un contesto, quindi un’articolata struttura di relazione.
La Decorazione, sulla base di quanto ho già espresso, è inscindibile dalla pratica dell’abitare umano, e per questo, per molto tempo, la formazione in quest’ambito si è sviluppata in un privilegiato rapporto con l’insegnamento dell’architettura.

Quando nel 1926 l’allora Presidente dell’Accademia di Venezia istituisce la Scuola Superiore di Architettura, l’attuale IUAV, le materie di insegnamento che vengono avviate sono infatti fortemente legate alla pratica della Decorazione: Guido Sullam insegna Decorazione, materia che dal 1933 vede Carlo Scarpa come titolare, Augusto Sezanne insegna Disegno ornamentale, Guido Cirilli insegna Composizione.
Con il concretizzarsi di teorie che legavano quasi integralmente le pratiche artistiche all’industria, imponendo una contrazione del problema creativo alla sola relazione tra forma e funzione, si sono poste le condizioni per una separazione tra queste due “arti dell’abitare”, consentendo lo sviluppo delle condizioni ottimali per una riflessione più ampia del concetto di Decorazione.
Questa riflessione ha trovato ampi spazi di crescita grazie al fatto che si è imposta l’esigenza, nelle arti visive e non solo, di rendere permeabili le barriere tra i vari campi operativi. Qualcuno ancora cerca formule in grado di mettere a fuoco quel “blurring of the boundaries” che è, di fatto, il motore stesso del processo creativo nel suo consentire il passaggio e lo scambio, per cui capita di incontrare definizioni come “arte-come-design”, o simili.

Credo basti evitare qualsiasi limitante safety-zone, nella nostra riflessione su questo tema, e assumere il rischio che sovrintende ad ogni processo creativo, per capire la centralità e l’urgenza che l’insegnamento della Decorazione nelle Accademie ha avuto e continua ad avere nel panorama della ricerca e della produzione nel nostro paese.
2 Hai scelto tu Decorazione o è stata lei a scegliere te?
È una bella domanda. Il percorso di ricerca che avevo intrapreso, prima dell’insegnamento, mi ha condotto a confrontarmi per alcuni anni con la realtà del “sistema” della produzione artistica e la maggior parte delle strutture esistenti nel nostro paese erano incardinate su limiti che io, e con me molti, non riuscivamo a rispettare agevolmente.
Era come dover accettare di vivere una vita seguendo tappe e conseguendo risultati che qualcun altro aveva già immaginato, quindi una vita già vissuta, per cui, come molti artisti della mia generazione, preferivo esporre dentro a fabbriche abbandonate piuttosto che all’interno di gallerie commerciali e impegnarmi nella costruzione di quelle che Hakim Bey definiva T.A.Z. (zone temporaneamente autonome) nell’ambito della produzione artistica, recuperando possibili modelli “dal basso” come i rent party di Harlem degli anni ’20. Sentivo il bisogno di intervenire su un campo esteso e non concepivo come strutture separate le dinamiche che precedono e seguono la realizzazione di un processo artistico.

Non mi era perfettamente chiara la direzione politica che avevo intrapreso ma, per usare le parole di Giuliana Altea nel finale del suo “Il fantasma del decorativo”, percepivo di essere in una “campana di vetro che appare tanto più impermeabile al reale quanto più ci si sforza di avvicinarsi a esso. […] Il peso della campana di vetro spinge alcuni a sondarne in confini, a cercare di produrvi incrinature, o addirittura a evaderne verso forme di attivismo”.
Così, quando ho partecipato ai concorsi nazionali per l’insegnamento, mi è sembrata una scelta quasi obbligata candidarmi per la titolarità del corso di Decorazione, nonostante il mio diploma in Pittura, ambito che mi consentiva di sviluppare con maggior coerenza la ricerca che avevo avviato.
Come sempre avviene, quindi, direi che ci siamo scelti.
Gli interventi decorativi spesso passano inosservati. Secondo la tua esperienza, inconsciamente, le persone si rendono conto delle trasformazioni artistiche che modificano l’ambiente in cui vivono?
La cultura fonda i comportamenti, quindi è impensabile che le persone non vengano influenzate da queste trasformazioni. Quel che è importante è che queste trasformazioni avvengano, in qualsiasi forma. Che si tratti di un’opera pubblica finanziata dalle istituzioni o di un intervento urbano prodotto dal basso, della facciata di un palazzo decorata con vernice in grado di depurare l’aria o un’innovativa interfaccia grafica in un social network, conta poco. Quel che so per certo è che il nostro costruire attraverso il processo creativo è sia frutto che mattone costitutivo della nostra cultura, cioè dell’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite anche attraverso l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo, diventano elemento costitutivo di ognuno.
È attraverso la nostra cultura che il mondo ci si presenta, indipendentemente dal fatto che noi ce ne rendiamo conto.
Il dato nuovo è che, anche a causa dell’accelerazione del digitale, si è notevolmente arricchito il concetto di “ambiente”, integrando la macchina e i suoi prodotti (anche di scarto), e questo complica ulteriormente le cose se non si è disposti a superare i dualismi propri alla società del tardo capitalismo. Ma il successo di autori come Anna Tsing e Donna Haraway mi porta a pensare che i tempi siano maturi per il consolidamento di approcci ecologici più strutturati e coerenti, basati sulle affinità e l’interdipendenza, piuttosto che su semplificazioni binarie.
Abitiamo già le sfumature tra l’animale e la macchina ed è pericoloso averne paura; si tratta, piuttosto, di aumentare il livello del nostro ascolto, sviluppando ulteriormente gli strumenti di approccio più adeguati: “una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti”, come scrive Haraway.

Non possiamo immaginare di far transitare lo sguardo dallo schermo del nostro smartphone alla città sicuri, ingenuamente, che le due cose non ci vedano in una posizione attiva. Lo scorrimento eterogeneo e verticale dei contenuti nei social consente di certo di proporre a un pubblico in grado di accettarle delle nuove soluzioni nel montaggio audiovisivo, ma siamo sicuri che l’uso di queste ulteriori skills di cui disponiamo, in noi, si limiti ad attuarsi solo davanti alla protezione di uno schermo? Siamo e saremo sempre più “phygital”, quindi vedremo a breve il consolidarsi di laboratori che, anche in questo caso, sfrutteranno la sfumatura dei confini in modo da consentirci l’abitare.
In generale si definisce la Decorazione: “arte applicata”. Significa, che il resto delle “belle arti” non lo sia? Un quadro non è forse applicato ad una parete?
Louise Lawler è un’artista che usa la fotografia per porre il tuo stesso problema. Problema che potremmo riassumere affermando che, una volta passata dalle mani dell’artista a quelle del collezionista, non ci sia molta differenza tra un lampadario e una tela di Fontana, tra un Pollock e una preziosa zuppiera in ceramica.
Eludendo volontariamente le problematiche che qualificano le obsolete categorie di produzione, tornerei a insistere sul dato che l’uomo, nel suo abitare il mondo, cerca di costruire da sempre le interfacce indispensabili a collegare un sentire comune e la realtà in cui vive. Il mondo che abitiamo non è in sé: è sulla base del nostro agire quotidiano, è un’eterna cosmogonia.
Osservando il problema dal punto di vista della Decorazione è ovvio che conti molto poco se lo schema è indagato e mostrato da un collezionista o da un’artista. Una ricerca si può applicare in molti linguaggi e trovare forme straordinariamente efficaci nella sua traduzione, ed oggi questo lo vediamo con sempre maggior chiarezza in tutti i campi della produzione culturale e scientifica.
I Futuristi si ponevano il problema di superare la
progettazione di giocattoli “solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino” nel loro Manifesto del 1915 “Ricostruzione futurista dell’universo”, dichiarando che ne avrebbero costruiti di migliori “per mezzo di complessi plastici”.
Credo che dovremmo, al pari dei nostri padri, sfruttare attraverso una pratica libera quel che emerge dal processo connettivo proprio all’arte applicata, piuttosto che impegnarci troppo nella sua definizione, usarlo senza rinunciare alla libertà indispensabile a qualsiasi processo di ricerca e, nel farlo, costruire le condizioni affinché vi siano strutture dove sia agevolata la contaminazione delle competenze.
Ultimamente insegni a coloro che frequentano il secondo biennio di studi. Gli allievi dovrebbero avere una maggiore chiarezza sulla propria ricerca artistica. In questo caso, come si sviluppa il tuo ruolo nei loro riguardi?
Gli studenti del secondo livello hanno nella maggior parte dei casi delle identità autoriali definite, seppur con enormi possibilità di sviluppo. Il percorso formativo che propongo, per via di questi presupposti, è orientato a radicare queste caratteristiche, costruendo anche le condizioni per un confronto continuo con le produzioni di altri attori, al fine di costruire una rete che implementi, seppur in modo contenuto, i necessari contributi alla ricerca in atto.

A volte capita che per alcuni studenti sia abbastanza difficile assumere il concetto stesso di “ricerca”. L’indagine o lo studio condotti con criteri di sistematicità, e i relativi metodi, sembrano appartenere all’ambito esclusivo delle scienze, piuttosto che (anche) a quello delle arti visive, nell’opinione di alcuni. Per cui in qualche caso si verificano delle impasse imbarazzanti, quando mi ritrovo a descrivere il lavoro di alcuni autori che hanno affrontato o affrontano problematiche coerenti con quelle propostemi dagli studenti. La risposta a questo che, per me, è un concreto punto di sviluppo, in molti casi è: “ma allora è già stato fatto…”. A questa sentenza segue normalmente, da parte dello studente stesso, una proposta con soluzioni formali e ambiti di indagine nettamente diversi: come se un allievo di fisica interessato ai sistemi complessi e attratto dalla struttura del volo degli uccelli in stormo, invece di confrontarsi e partire dagli studi del premio Nobel Giorgio Parisi se ne tenesse alla larga perché qualcuno se ne è già occupato. Questa, che non è di certo la norma, è comunque una casistica abbastanza comune; quindi, come puoi immaginare, il mio ruolo si articola su uno spettro abbastanza ampio.
Una cornice può salvare un quadro? Può prendere il posto di un quadro?
Si, la cornice salva il quadro. Il confine deve essere sempre permeabile, perché i limiti sono indispensabili alla relazione.

Qualche anno fa, nell’ambito di un progetto di riqualificazione urbana con la municipalità di Favaro Veneto dal titolo “Spaziolaboratorio”, abbiamo realizzato dei laboratori tematici nelle scuole del territorio. In uno di questi abbiamo fatto vivere a un gruppo di ragazzi lo stesso spazio, la palestra della scuola, prima e dopo il nostro intervento. Prima lo spazio era libero, poi lo abbiamo diviso con un alto muro di tessuto lungo il quale abbiamo costruito dei tunnel lunghi e stretti che consentivano il passaggio da un lato all’altro. Il confine è ovviamente diventato l’oggetto di principale interesse, lo strumento attraverso il quale si è sviluppato un dialogo continuo cadenzato da spinte al morbido tessuto, al semplice fine di dichiarare la propria presenza a chi stava dall’altra parte, seguite da continui attraversamenti.


Esiste quindi una virtù del limite che rappresenta lo strumento irrinunciabile attraverso il quale porre in rapporto, è luogo dello scambio. Difficile parlare di questo in un periodo come quello che stiamo vivendo, ma necessario proprio per i motivi descritti nelle risposte precedenti: è la cultura che fonda i nostri comportamenti.
Il parergon è la cornice, riprendendo la lucida lettura di Derrida, limite che separa il proprio (l’ergon) dall’esterno e che, nel separare, dà forma all’ergon stesso. Il parergon non è del tutto esterno e non è del tutto interno all’opera, e proprio per questa sua necessaria condizione non potrà mai prendere il posto di un quadro.
Ma, aggiungo, stiamo parlando di Decorazione, e la Decorazione si occupa di porre in relazione, è un approccio di tipo ecologico che non prevede l’imposizione di un assoluto quanto una diversità relata. In altre parole: non solo non è necessario il primato dell’opera sulla cornice, ma immaginarlo ci impedisce di ricevere delle informazioni fondamentali alla nostra comprensione del mondo. Solo così riusciamo a intendere, come dice Gombrich, come la Decorazione possa mutare la “ridondanza in abbondanza e l’ambiguità in mistero”.
Quali sono i progetti più interessanti svolti in questi 30 anni di insegnamento all’Accademia?
Sono moltissimi i progetti realizzati nel corso della mia attività in Accademia e, francamente, per me tutti interessanti, seppur per motivi diversi.
Atelier di Decorazione B - Accademia di Belle Arti di Venezia Spaziolaborato 2002-2003
Spaziolaboratorio, a cui accennavo prima, è stata un’ottima palestra che ha consegnato agli studenti parecchi strumenti su come approcciare la complessità della relazione tra la produzione artistica e lo spazio della città in tutte le sue declinazioni.
Atelier di Decorazione B - Accademia di Belle Arti di Venezia Spaziolaboratorio 2002-2003


Sempre in tema di spazio pubblico, progetti come “Prove di volo” o la
riqualificazione del Distretto Socio-Sanitario di Chioggia, si sono inseriti su quel filone di ricerca, nel tentativo di indagare la città attraverso l’abitare, quindi attraverso la sua costruzione.
“arTVision”, progetto finanziato con fondi europei, ha prodotto moltissimi documenti audiovisivi sulla produzione culturale Veneta e dell’area dell’Adriatico, consentendoci inoltre di attrezzare al meglio l’atelier per la realizzazione professionale di prodotti foto/audiovideo.

Esposizioni come “Elaborare il lutto” o “Sfiorami – e tu?” hanno mostrato la vasta e articolata geografia delle ricerche degli autori che si sono formati nell’ambito della Scuola di Decorazione.

“Glassound”, partendo dalla relazione tra suono e vetro, ha messo insieme le ricerche di molti studenti nell’ambito della progettazione del vetro artistico contemporaneo, della multimedialità, della comunicazione e dell’allestimento con le aziende del territorio attive nella produzione vetraria e dell’interior design. Transitando i confini, nel tentativo di distinguere il codice dal rumore di fondo, capita così che a dare la forma al vaso sia il grafico d’onda del suono prodotto dal soffio stesso del maestro vetraio che lo crea. Ma affinché questo avvenga l’artista che progetta il vetro deve frequentare lo stesso ambiente in cui vive e produce l’artista che si occupa di paesaggi sonori, e viceversa. In questo senso si sviluppa l’insegnamento della Decorazione.

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